“La superficie totale della Terra coperta dagli oceani è più del 70% e i commerci internazionali sono gestiti per il 90% da trasporti nautici. L’attività umana dipende dagli oceani per il cibo, i trasporti, il tempo libero e, allo stesso tempo, gli oceani mitigano il cambiamento climatico producendo ossigeno, assorbendo anidride carbonica e bilanciando lo scambio di calore”. È così che gli autori di una ricerca italo-spagnola, pubblicata sulla rivista Future Generation Computer Systems, descrivono l’importanza ciclopica degli oceani, per l’essere umano e per il pianeta. Uno studio in cui propongono un sistema innovativo per studiarla: una pipeline di analisi delle immagini sottomarine basata sul“compute continuum, una tecnologia che unisce potenza di calcolo locale e in cloud per analizzare i dati in modo rapido, efficiente e sostenibile.
Il team di ricerca propone un nuovo approccio chiamato, appunto, compute continuum, dove l’elaborazione dei dati non avviene solo nel cloud remoto – ossia al destinatario finale a cui arrivano solitamente tutte le informazioni – ma verrebbe distribuita su tutta la catena di acquisizione di quei dati: dalla telecamera stessa o dai sensori, ai dispositivi di bordo (edge), fino al cloud o all’utente ultimo. Questo permetterebbe di ridurre i costi energetici e di trasmissione. “Il continuum di calcolo è un’estensione del cloud tradizionale verso molteplici entità che forniscono capacità di analisi, elaborazione, archiviazione e generazione di dati” riportano gli autori.
Chi monitora gli abissi
Ad oggi, sono numerosi i sistemi impiegati per monitorare gli ambienti marini. I più strutturati sono gli osservatori sottomarini cablati: installazioni permanenti ancorate ai fondali che attraverso lunghi cavi trasmettono dati e immagini verso la terraferma. Ne è un esempio OBSEA – Observatory of the Sea, attivo nel Mediterraneo occidentale. Accanto a questi, ci sono le piattaforme oceanografiche come quella dell’Adriatico, l’Acqua Alta del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR), che utilizzano anche segnali radio per la trasmissione. Inoltre, Acqua Alta è “l’unica piattaforma al mondo operativa in mare aperto che permetta la prolungata permanenza a bordo di ricercatori e tecnici durante le campagne di misura e con qualsiasi condizione meteo-marina.
Più dinamici sono i veicoli autonomi subacquei e i veicoli telecomandati, capaci di muoversi a varie profondità per raccogliere immagini ad alta risoluzione: strumenti come l’Autosub6000 – che scatta foto dei fondali offrendo dati biologici e degli habitat marini – o le soluzioni combinate del progetto europeo ENDURUNS uniscono l’azione di un veicolo subacqueo con una sistemi di superficie. Infine, dispositivi più leggeri e a basso costo, come GUARD-1, sono pensati per il monitoraggio continuo di fauna marina – macro e micro – in modo autonomo, anche per lunghi periodi.
Tutti questi strumenti, seppur differenti per tecnologia e portata, condividono l’obiettivo di raccogliere grandi quantità di dati visivi e ambientali, offrendo una finestra senza precedenti sul mondo sottomarino.
Le difficoltà degli abissi
Gli oceani sono sistemi vasti e complessi e, nonostante la varietà di strumenti a disposizione, non è affatto semplice studiarli. Le difficoltà principali riguardano da un lato la fase di acquisizione dei dati, dall’altro quella di analisi.
In profondità, la trasmissione dei dati può essere complicata da una banda di trasmissione ridotta e da una disponibilità energetica limitata. I dispositivi non possono trasmettere tutto ciò che registrano in tempo reale, né contare su un’alimentazione continua. Il tutto è complicato dal fatto che spesso le immagini raccolte coprono vaste aree marine e possono raggiungere numeri molto alti. “La conseguenza è che la quantità di immagini è sovrabbondante e aumenta ogni anno. L’elaborazione di queste immagini attraverso la conoscenza e le capacità umane è impegnativa e richiede molto tempo” spiegano i ricercatori.
Questo tipo di analisi può richiedere strumenti avanzati di visione artificiale e intelligenza artificiale, capaci di funzionare in ambienti complessi, variabili e scarsamente illuminati. Le immagini devono essere interpretate correttamente per identificare le specie presenti o riconoscere cambiamenti ecologici rilevanti. La sfida è quindi duplice: da un lato ridurre il volume dei dati da trasmettere selezionando solo quelli utili, dall’altro fornire ai dispositivi stessi la capacità di “capire” cosa stanno osservando, per agire in modo autonomo e adattivo. È proprio su questo fronte che si inserisce la proposta degli autori: un sistema distribuito, basato sul compute continuum, capace di spostare parte dell’elaborazione a bordo dei dispositivi, riducendo al minimo lo scambio di dati e rendendo più efficiente l’intero processo di osservazione sottomarina.
Perché serve tecnologia per studiare la biodiversità
La biodiversità marina è una risorsa fondamentale per il pianeta. I mari assorbono CO₂, producono ossigeno, regolano il clima e ospitano migliaia di specie, molte delle quali ancora sconosciute. Eppure, la maggior parte degli oceani resta inesplorata. Per proteggere questi ecosistemi servono strumenti capaci di raccogliere informazioni in modo continuo, anche in ambienti ostili o remoti. E serve farlo in modo efficiente.
È qui che entra in gioco la sinergia tra biologia marina e informatica. I sistemi di intelligenza artificiale possono aggiungersi come nuovi attori all’interno della catena di acquisizione, prima, e analisi, poi, dei dati marini. È un esempio concreto di come l’innovazione digitale possa contribuire alla conservazione degli ecosistemi, applicando strumenti nati in altri ambiti (come la robotica o il riconoscimento facciale) alla ricerca ambientale.
Dentro lo studio: come funziona la pipeline sottomarina
Il cuore dello studio è una pipeline completa per l’analisi delle immagini subacquee, a partire dallo strumento che le rileva. La prima sfida che i ricercatori hanno dovuto affrontare è stata quella di “insegnare” al computer a riconoscere i pesci del Mediterraneo. Fino ad oggi, la maggior parte degli studi simili si basava su immagini di pesci tropicali, dalle acque cristalline e dalle specie molto diverse da quelle che popolano i nostri mari.
Il problema delle acque diverse: Il Mar Mediterraneo è ricco di nutrienti che influenzano la trasparenza e il colore dell’acqua. A differenza dei mari tropicali, le nostre acque hanno una tonalità più verde-azzurra che rende più difficile il riconoscimento automatico delle specie.
I ricercatori hanno utilizzato immagini raccolte da OBSEA, un osservatorio sottomarino al largo della costa spagnola, in un’area protetta del Mediterraneo. Oltre 33.000 immagini sono state annotate e usate per addestrare diversi modelli di riconoscimento automatico di pesci, tra cui Diplodus vulgaris, Chromis chromis e Coris julis.
Il team ha testato tre modelli di riconoscimento, con tre diverse architetture neurali: YOLOv3 e le sue due versioni semplificate, ULO e ULO Tiny. Questi nomi tecnici nascondono approcci diversi al riconoscimento delle immagini, ognuno con i propri punti di forza. Mentre YOLOv3 garantisce un’elevata precisione a costo di un elevato consumo energetico, ULO Tiny si è rivelato il più adatto a scenari con risorse limitate: consuma meno energia e mantiene comunque una buona accuratezza. Nelle condizioni a basso consumo energetico, ULO Tiny ha elaborato ogni immagine in circa 0,24 secondi con un assorbimento medio di 867 mA: ogni watt di energia risparmiato può significare giorni in più di autonomia in ambienti sottomarini remoti.
Una volta addestrati, questi sistemi sono in grado di analizzare automaticamente nuove immagini, identificando non solo la specie di ogni pesce ma anche la sua posizione nell’immagine e il grado di certezza dell’identificazione. Le immagini vengono elaborate direttamente a bordo del dispositivo (edge computing) e solo quelle con contenuti rilevanti – per esempio immagini con pesci identificabili – vengono trasmesse al centro di calcolo remoto (cloud computing). Il processo finale, infatti, include un “controllo di qualità” automatico che elimina i duplicati o gli incerti. Questo riduce drasticamente il numero di dati inviati, abbassando i costi energetici e rendendo possibile il monitoraggio continuo anche in condizioni ambientali difficili.







Con questo lavoro, il team di ricerca ha mostrato che è possibile riconoscere e contare i pesci del Mediterraneo direttamente sul campo, senza dover trasferire migliaia di immagini a centri di calcolo remoti.