La biodiversità della biodiversità

Nov 2024 – Antonio Massariolo, Benedetta Pagni

Quanta biodiversità c’è negli studi sulla biodiversità? Sembra una domanda da metascienza, invece è uno studio pubblicato nel gennaio 2023 su Current Biology. La risposta breve è “poca”, la risposta lunga cerchiamo ora di analizzarla. Il gruppo di ricerca, capitanato da Stefano Mammola del National Biodiversity Future Center, ha preso in considerazione un campione di 10.170 articoli scientifici che avevano all’interno la parola “biodiversità” ed ha studiato quanti di questi parlassero veramente di ciò. 

Per capire bene quello di cui stiamo parlando però è bene fare un passo indietro e vedere cosa significa questa parola. La biodiversità è definita dall’articolo 2 della Convenzione sulla diversità biologica:

”Ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte; essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi.”

Tale definizione è emersa da quella che, comunemente, viene definita la “Conferenza di Rio”, cioè la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. Questa è stata la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente a cui hanno partecipato rappresentanti dei governi di 178 Paesi. Irisultati della Conferenza di Rio furono una serie di principi che portarono alla creazione dell’Agenda 21, della Convenzione sul cambiamento climatico ed anche della Convenzione sulla diversità biologica.

Sono partiti da qui i ricercatori e si sono chiesti quanto realmente parlino di biodiversità gli articoli scientifici che citano questa parola. Del campione di oltre 10 mila pubblicazioni, il team di ricerca ha estrapolato circa il 10% di questi articoli analizzando il focus geografico, le metodologie e gli aspetti della biodiversità considerati. Oltre a ciò sono stati considerati anche i phyla, cioè i gruppi tassonomici, ed è stato calcolato per ciascuno studio il numero di phyla campionati rispetto al totale possibile.

I risultati riportano che il 22% degli articoli che utilizzano la parola ‘biodiversità’ nel titolo non misurala biodiversità a nessun livello. Tra i restanti 661 articoli, la maggior parte campionava solamente una piccola proporzione di essa.

Per dare l’idea dell’ampiezza solo sul piano degli organismi viventi animali con più di una cellula, si trovano più di 34 phyla e 1,5 milioni di specie identificate e descritte (come riporta il sito del dipartimento di Biologia dell’Università di Padova). Del campione rappresentativo considerato da Mammola e colleghi, 367 su 916 articoli non ne citano neppure uno in particolare:al massimo vengono fatti degli accenni al mondo animale nel suo complesso.

“L’idea di partenza dello studio – ha dichiarato Mammola – è che se usi la parola biodiversità nel titolo mi aspetto che tu stia campionando la più alta diversità. Per questo siamo andati a vedere la proporzione di biodiversità campionata, perché se scrivi di aver analizzato la biodiversità di questa regione, ma hai preso solo i vertebrati, avrai un phylum e quindi la tua proporzione di biodiversità sarà meno dell’1%. Abbiamo notato che la media era del 3-4%: vuol dire che la maggior parte degli studi che parlano di biodiversità in realtà si concentra su un phylum solo. Di conseguenza,  biodiversità non è il termine più appropriato”.

La motivazione, secondo il ricercatore, è abbastanza semplice e sembra essere del tutto similare a quella che spesso, nel giornalismo, viene definita la moda del clickbait.

“C’è un trade-off fra la necessità di vendere e pubblicare i nostri risultati, e quindi, almeno nel titolo, cercare di essere un po’ più generalisti, e la necessità di essere scientificamente accurati e precisi – continua Mammola -. Su questo trade-off si instaurano questi giochi di chi lavora con la biodiversità. Per questo motivo, siamo andati a studiare la reazione fra il numero di aggettivi e quante citazioni riceve un paper. C’è effettivamente un’interazione significativa, cioè ricevi tante citazioni all’aumentare del numero di gruppi che campioni.

L’altro risultato è stato guardare come è cambiata la proporzione di biodiversità campionata nel tempo: noi abbiamo coperto venti o trent’anni e la cosa interessante è che effettivamente non c’è una differenza statistica temporale nella biodiversità campionata:viene campionato sempre molto poco nonostante in questi trent’anni le conoscenze e le tecniche siano cambiate. La mia previsione era che ci sarebbe stato un aumento del campione”.

C’è poi un aspetto probabilmente più pop, meno scientifico, ma che fa capire l’andamento della conoscenza del termine biodiversità negli ultimi anni. Mammola e soci hanno infatti analizzato il set di emoji dei telefonini – in cui c’è la parte natura e biodiversità – e hanno riscontrato che è sbilanciato. Potremmo definire le emoji vertebrato centriche. Per arrivare a questo risultato i ricercatori hanno costruito l’albero filogenetico dell’emoji, che è in continuo e costante aggiornamento, tanto che con le ultime modifiche sono stati inseriti phyla interi che mancavano, come ad esempio gli anellidi, le meduse.

Quando si parla di biodiversità quindi, è quasi inevitabile avere dei bias in quanto è rappresentata male nell’immaginario sia scientifico che popolare. L’aspetto su cui Mammola si sofferma, però, è l’importanza di una corretta rappresentazione. “Questi bias possono magari farci sorridere – conclude il ricercatore – ma spesso si traducono in un diversa attenzione in termini di conservazione della biodiversità. Attenzione che si riversa poi anche nei finanziamenti. Prendiamo ad esempio il programma dell’Unione Europea chiamato LIFE, andando ad analizzare i progetti più finanziati vediamo che, per quanto riguarda la conservazione effettiva delle specie, il lupo e l’orso hanno molti più finanziamenti rispetto ad esempio a progetti sul coleottero carabide o al fungo la mannita buscata. Questo non sarebbe giusto perché in teoria dovrebbe esserci una distribuzione più omogenea dei fondi. Questo considerando anche il fatto che, per esempio, il lupo che riceve molti finanziamenti perché si trova in grande areale, non rappresenta un ombrello che protegge veramente la biodiversità del territorio in cui si trova. Quando vai a vedere le esigenze ecologiche di un invertebrato il cui habitat si sovrappone a quello del lupo, le loro nicchie ecologiche difficilmente interagiscono e quindi quello che tu fai per proteggere il lupo alle volte è dannoso per il resto. Ci vorrebbe un bilanciamento più equo”.

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